Intervista a Francesco Sabbatino: il rapporto con don Bosco.

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Francesco Sabbatino rappresenta un personaggio unico in Penisola sorrentina, conosciuto e apprezzato da tutti pur non rivestendo un ruolo politico, amministrativo o professionale di spicco: è soprattutto un “educatore di anime”, che ha dedicato la sua esistenza, e continua a farlo, a portare a tutti messaggi di amore e fraternità. Salesiano dal 1996 al 2006, ha girato l’Italia nel ruolo di educatore dei giovani nelle comunità di don Bosco, e poi, tornato alla sua Sant’Agnello e smesso il saio, ha continuato a prodigarsi nella sua missione, traducendo la sua esperienza anche in libri. Approdato sui social, Francesco continua la sua opera di evangelizzazione anche su facebook e whatsapp, deliziando i suoi contatti con immagini positive (è anche un bravo fotografo, nel 2015 tenne una mostra di sue opere a Sant’Agnello), messaggi di benevolenza, storielle edificanti di sua invenzione, secondo il motto “facciamo girare il bene”. Attualmente si presenta al pubblico con un libro dedicato al suo ispiratore, San Giovanni Bosco, il fondatore dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice, uno dei Santi più amati e invocati, che Giovanni Paolo II definì “padre e maestro della gioventù” per la sua pedagogia, sintetizzabile nel “sistema preventivo”, che si basa su tre pilastri: religione, ragione e amorevolezza.

Insomma, carissimo Francesco Sabbatino, con “Ti racconto don Bosco” sei arrivato al decimo libro, un bel traguardo, eh? Proprio nel solco delle indicazioni di don Bosco, che disse: “Il Signore coprirà di benedizioni quanti diffonderanno la buona stampa”.

Don Bosco ha scritto tantissimo. Oltre 220 libri editi. Libri semplici ma sempre così utili ed interessanti. Lui non cercava fama e celebrità ma voleva diffondere una buona cultura, principalmente ai suoi ragazzi ma anche alle persone appartenenti a ceti sociali più bassi, con meno strumenti e risorse. E lo scrivere, nel modo semplice e diretto in cui sapeva fare, era un modo per arrivare veramente a tutti. Furono proprio i destinatari della sua scrittura a diffondere i suoi libri, tra i compagni o alla gente che incontravano, decretandone l’enorme successo. Don Bosco non è conosciuto come un grande scrittore ma come uno dei più grandi educatori. La scrittura è stata il mezzo per divulgare il suo metodo educativo, che grazie alle sue opere è arrivato anche in Paesi non cristiani. Don Bosco era convinto che fosse Dio in persona a domandargli di scrivere e non solo scriveva in prima persona ma invitava gli altri a farlo. Per don Bosco la Buona Stampa doveva superare la Mala Stampa. Ecco perché lasciò come testamento ai suoi Salesiani di occuparsi della Buona Stampa. Precetto che loro hanno seguito alla lettera. Da qui la massima che “i Salesiani non fanno figli ma fogli”. È su questa linea che mi muovo anch’io. Ma lo scrivere tanto è stata una sorpresa anche per me. Mai avrei immaginato, che quella frase che spesso sentivo ripetere sulla prolificità nello scrivere dei Salesiani, un giorno sarebbe stata vera anche per me. È dal 2014 che ho iniziato a scrivere e ho pubblicato biografie, racconti, libri di preghiere, consigli per i ragazzi, e ora questo libro su don Bosco. Una soddisfazione, per me, ma anche un grande sacrificio e impegno. Non è stato impresa da poco pubblicare dieci libri, senza avere una casa editrice, con la difficoltà di doverli pagare da solo e cercare di venderli per ripagare almeno le spese.

Cosa ti dà la forza di continuare a combattere sempre per veicolare i tuoi messaggi evangelici?

Sapere di essere un piccolo tassello, come tutti, ma che ogni piccolo tassello rende il puzzle più bello e significativo. E la mia carica, la trovo nella meditazione e nella preghiera. La mia Fede è da sempre la mia forza. Mi dà coraggio nei giorni di calma e di tempesta. Senza la Fede, non sarei arrivato a consumarmi per gli altri. Poi, per me importante è la testimonianza. Non un semplice apparire, ma essere trasparenti, per far vedere oltre di te.

Questa tua ultima fatica letteraria è uscita il 4 ottobre 2022, una data per te ricca di valore simbolico, vero?

Sì, è la festa di San Francesco di Assisi, patrono d’Italia. Festa tanto cara a don Bosco. Non solo perché era il nome di suo padre, ma anche in quanto sarebbe voluto diventare francescano, se la Provvidenza non l’avesse prescelto per altro. C’è anche un altro motivo per cui il mese di ottobre è speciale per i Salesiani. Don Bosco aveva da sempre il pallino delle missioni, e sarebbe partito volentieri, se il suo padre spirituale don Giuseppe Cafasso, anche lui Santo, non gli avesse quasi ordinato di restare al suo posto. Ma nell’ottobre del 1875, a partire in missione fu un piccolo gruppo dei suoi allievi migliori, capitanati da Giovanni Cagliero, che sarebbe poi diventato il primo cardinale Salesiano. La tappa della prima missione fu l’Argentina, che don Bosco aveva sognato. Da quella terra, nacque, a Viedma, il suo ottavo successore, don Juan Edmundo Vecchi, il Rettor Maggiore che nel 1996, nella Basilica del Sacro Cuore di Roma, mi fece Salesiano. In ricordo di quella prima spedizione, il mese di ottobre è considerato il mese missionario anche per i Salesiani, e chissà se per coincidenza o altro, il mio libro è uscito proprio nel mese missionario. Io sento che siamo invitati tutti ad essere missionari, non necessariamente in terre lontane ma avvicinando i fratelli della porta accanto. E anche un piccolo libro può essere tramite di missione!

Perché un libro su don Bosco?

Per me don Bosco non è solo il Santo ma il mio modello di vita, sia come degna persona che come buon cristiano: il mio secondo padre. Questo mio libro dedicato a lui ne è la prova. È il libro di un figlio che parla di suo padre. Vedere per credere, anzi, leggere per verificare!

Hai trovato difficoltà nella stesura del testo?

Scrivere di don Bosco non è stato facile. Più volte mi ha preso la commozione. Più volte ho temuto di non esser riuscito nell’impresa. Allora ho chiesto proprio a don Bosco di correggere ciò che non avessi centrato e mi benedicesse. E gli chiedo di benedire quanti leggeranno questo libro e mi aiuteranno a diffonderlo. Far circolare il suo messaggio farà piacere veramente a don Bosco e lui vi donerà la sua benedizione paterna.

A chi consigli la lettura del tuo libro?

Ai ragazzi innanzitutto. Consiglio ai genitori di donarlo ai propri figli. È vero che parlo di don Bosco e di me, ma i giovani troveranno anche tanto di loro stessi, li farà sognare, comprendere, conoscersi e potrà dare loro una spinta per realizzarsi. Arricchirà il loro cuore. Ma poi lo consiglio per tutte le età. Il messaggio di don Bosco è universale. Attraverso la sua vita possiamo aprire uno squarcio di luce anche sulla nostra.

La prima presentazione ufficiale del libro, a Sant’Agnello, nella Villa Crawford, ha avuto molto successo.

Per me, un’emozione unica. Villa Crawford: per me tutto ebbe inizio da lì. La Villa mi vide giovane animatore e iniziare il percorso di Salesiano. Vi arrivai nel mese di maggio del 1986 e ci rimasi fino al settembre del 1993, quando decisi di andare a Caserta alla Comunità Proposta. Dal 1986 al 1993, ogni pomeriggio ero lì in mezzo ai ragazzi. Quel cortile mi ha visto crescere e maturare come uomo e come educatore. Ritornarci per parlare del “modello educativo don Bosco” è stato al tempo stesso un onore e una gioia immensa. Un modo di dire grazie al Signore e a don Bosco, per i doni ricevuti.

Immaginavi di fare tanta strada, a quei tempi?

Oh no, mai avrei pensato o scommesso di fare tutto ciò che poi è accaduto nella mia vita. Com’è misteriosa la nostra esistenza. Nel 1989 la promessa come Cooperatore Salesiano, e sette anni dopo, addirittura Salesiano religioso. Oggi che ho percorso tanta strada, con dossi, curve e viali lunghissimi, vedo comporsi davanti a me la mia vita come un puzzle dove ogni cosa ha trovato un suo senso. Spero che anch’io un giorno, come Gesù sulla croce, possa dire: “Tutto è compiuto! Ho fatto la tua volontà. Amen”.

Perché don Bosco amava tanto i giovani?

Don Bosco fu Padre, Maestro ed Amico dei giovani. Lui sapeva entrare nel cuore dei suoi ragazzi, li ascoltava e li osservava. Passava tutto il suo tempo con loro. Egli comprese il potenziale enorme dei ragazzi, ma si rese anche conto delle profonde lacune che ponevano un’ipoteca sulla loro piena realizzazione. E intuì che solo la conoscenza poteva riscattarli. Allora ebbe un’idea geniale, quella di introdurre le scuole serali, per chi di giorno fosse costretto ad aiutare la famiglia e non potesse attendere alla scuola. Iniziò ad insegnare italiano, storia, latino, matematica e francese da solo, a titolo gratuito. Fu un tale successo che dovette chiedere aiuto a vari collaboratori. Ebbe un’altra idea geniale, combinare istruzione ed educazione morale, mescolando cultura e spiritualità: dopo aver iniziato i ragazzi all’alfabetizzazione, faceva leggere loro il Vangelo, così oltre ad imparare le nozioni, imparavano a conoscere Dio e la fede. Per loro cominciò a scrivere libri. La Storia d’Italia e la Storia della Chiesa. E tantissimi altri opuscoletti adatti a loro. Scrivere in modo semplice, l’ho appreso proprio da don Bosco, il quale, per arrivare a tutti, scelse di adoperare un linguaggio pulito e chiaro. Ecco perché don Bosco merita il titolo di Padre e Maestro. E anche Amico, perché da vero amico faceva sacrifici per il prossimo e faceva costantemente sentire la sua vicinanza nelle difficoltà. Non a caso don Bosco, nei dipinti o nelle statue che lo raffigurano, viene sovente ritratto con accanto un ragazzo. Diverse volte con San Domenico Savio, ma altre volte è un ragazzo qualsiasi. Infatti una sua particolarità, che è tipica però di qualunque bravo educatore, è quella di parlare ai ragazzi sia quando sono in gruppo che quando sono da soli. Le famose “paroline all’orecchio”. Don Bosco non ha mai pensato se il giovane fosse ricco o povero, simpatico o antipatico, bello o brutto. No! Don Bosco ha pensato al ragazzo. “Basta che siate giovani, che io vi ami assai”: è una delle più belle frasi che ha pronunciate e scritte. Don Bosco non mette confini, né paletti. Tutti possono essere amici suoi. Ovviamente devono essere o diventare buoni. Restare lupi o cani inferociti non è ciò che don Bosco può accettare. Ecco, questa è la strada da percorrere da chiunque voglia essere educatore. L’educatore deve guardare lontano e non può accontentarsi di avere pochi ragazzi, buoni, simpatici ed ubbidienti attorno a sé, per definirsi un bravo educatore. Deve sentirsi come un domatore, capace di addomesticare persone e non animali. Anime. Le anime pure dei giovani. Una volta don Bosco scrisse una lettera ai suoi ragazzi, usando queste parole: “Per voi lavoro, per voi scrivo, per voi sono disposto a spendere la mia vita, fino all’ultimo respiro”. Solo uno che ama, usa queste parole. Don Bosco era educatore fin nelle midolla.

I giovani che incontri oggi sono diversi da quelli che accudiva don Bosco?

Le problematiche, le emozioni, i turbamenti e i tentennamenti sono sempre gli stessi. I giovani sono il nostro futuro. Alcuni ci imitano e ci sorpassano, altri sono inoperosi e vecchi, già in giovane età. Bisogna incoraggiare i primi, e spingere i secondi. Questo dovrebbe essere il compito degli educatori. Secondo me vale sempre la pena di investire e scommettere sui giovani. E nessuno deve tirarsi indietro.

In cosa consiste essenzialmente il metodo don Bosco?

In un percorso integrato di realizzazione umana e cristiana, attraverso l’apprendimento, la cultura, il gioco, lo sport, le attività laboratoriali, la musica, l’arte, il teatro, il lavoro. Per don Bosco il gioco, lo sport, le attività non erano solo un passatempo, ma entravano di diritto nel suo sistema educativo. Basti pensare ai tanti campetti nelle case Salesiane, a quante polisportive sono presenti grazie a loro su tutto il territorio nazionale, ai palcoscenici teatralicostruiti. Don Bosco chiedeva ai suoi ragazzi di essere “un buon cristiano e un onesto cittadino”: Un messaggio semplice ma che racchiude tutto. Sono tantissimi i personaggi famosi che sono cresciuti negli ambienti Salesiani: sportivi come Rivera, Mazzola, uomini di spettacolo come Pippo Baudo e Adriano Celentano, politici e professionisti.

Una volta hai detto che oggi mancano i testimoni.

Sì. Don Bosco capì l’importanza di farsi testimone di fede e spinse i ragazzi ad esserlo a loro volta, ma coinvolgendoli in quello che interessava loro, immedesimandosi nel loro punto di vista. Quando era bambino, si dispiaceva tanto quando i suoi amici perdevano tempo con gli spettacoli dei saltimbanchi, proprio fuori all’entrata della chiesa, rinunciando ad entrare nel tempio. Fu per questo motivo che decise di imparare i trucchi, a camminare sulle corde, a fare i giochi di prestigio. Diventato prete, non potendolo più fare, imparò l’arte di coinvolgere e farsi voler bene, per trascinare senza costrizioni tanti ragazzi alle funzioni di chiesa e alla preghiera. Ciò che manca oggi, sono proprio i testimoni, come seppe esserlo lui. State certi che i ragazzi in chiesa non ci andranno da soli, se nessuno glielo raccomanda o glielo insegna. Dove siamo noi la domenica o nei giorni festivi più importanti? Dobbiamo essere con loro. Una pianta non cresce da sola. Ha bisogno non soltanto di un buon terreno ma anche di acqua, concime, di un bravo contadino che se ne prenda cura. Proprio coi nostri figli vogliamo che crescano come animali in libertà? Qual è la libertà di un treno o di un aereo, se non seguire i binari e la rotta tracciata? Guai a non avere regole, modelli, testimoni. Si rischia il caos. E ricordiamoci che Gesù non va in vacanza, né in estate né in inverno. Ci attende ed è paziente ma, attenzione, il nostro tempo non sarà per sempre.

Come cominciò don Bosco ad occuparsi dei giovani in difficoltà?

Quando il giovane prete andava in giro per la città di Torino, spesso per recarsi in qualche chiesa per confessare o dire Messa, non mancava di andare a cercare i ragazzi fuori ai luoghi di lavoro, sfruttati da datori di lavoro senza scrupoli, o quelli che girovagavano per strada senza fissa dimora. Alcuni riusciva a portarseli dietro, altri scappavano fraintendo quell’invito; la gente non è tanto cambiata da allora. I ragazzi che seguivano don Bosco, presto trovavano pane e focolare. La cosa più bella per loro era che erano certi di trovare sempre qualcosa da mangiare: don Bosco si preoccupava di dar loro assieme pane e catechismo. Dopo, vennero la scuola ed i laboratori, per insegnare loro la scienza e il lavoro. Quindi costituì un vero e proprio Oratorio, e un internato, un luogo per tenerli al sicuro, all’interno di Valdocco, alla periferia di Torino. Per farli svagare, oltre alle attività all’interno della struttura, li portava spesso a fare passeggiate. Don Bosco è stato anticipatore di tante attività, tra cui aveva capito l’importanza delle passeggiate culturali. Portava con sé i suoi ragazzi a stare fuori, li faceva cantare, pregare e divertire. Mentre camminavano, perlopiù a piedi o coi pochissimi mezzi a disposizione, conoscevano nuovi posti, la storia e la cultura di quei luoghi. Fu proprio al termine di una di queste passeggiate che don Bosco riuscì a fare un miracolo. Erano andati col loro Santo amico al cimitero, per la commemorazione dei defunti. Al ritorno, don Bosco aveva lasciato detto alla sua mamma e alle donne che la aiutavano di cuocere delle castagne per i suoi ragazzi. Durante il tragitto si cantava, si pregava, si chiacchierava. Appena giunti a casa, don Bosco cominciò a distribuire le castagne. Ma le donne erano preoccupate, perché don Bosco ne dispensava tante. Eppure, si accorsero che quelle castagne non finivano più. Un vero e proprio miracolo era avvenuto sotto i loro occhi. Ecco, ancora oggi, quel miracolo avviene. Non con le castagne ma coi ragazzi che affollano i centri parrocchiali, quando trovano qualcuno che si prende cura di loro.

Una figura centrale nella vita di don Bosco è stata proprio la madre, Margherita, che lo ha aiutato tantissimo anche nell’opera missionaria.

Assolutamente sì. Don Bosco l’aveva coinvolta nel suo apostolato in mezzo ai giovani, e insieme erano scesi dagli amati colli fino alla città, nel quartiere dove diedero inizio alla loro missione. “Dove andate? Di cosa vivrete?” Chiedevano amici e conoscenti. “Della Divina Provvidenza”, rispondeva il giovane prete, molto fiducioso. Infatti, un amico gli regalò un orologio: “Con questo vi pagherete il primo affitto”. “Vedi mamma? La prima Provvidenza già è arrivata”. Spesse volte, i ragazzi facevano sfinire Mamma Margherita e lei allora prendeva le sue poche cose e minacciava di andarsene. Don Bosco, allora, bastava che le mostrasse il crocifisso, che la sua mamma riponeva tutto e continuava a lavorare. Ecco, questo è vero Amore. Verso i ragazzi, verso suo figlio e verso il Signore. Il vero educatore può anche stancarsi, può anche minacciare di mollare tutto ma, guardando il crocifisso, dovrà arrendersi e tornare a lavorare per gli altri. San Paolo VI disse una volta: “Ci si può dimettere da un lavoro ma non ci si può dimettere da una missione”. Mamma Margherita, per non arrendersi, avrà capito proprio questo. Che quel suo aiuto, era diventato una missione.

Come ha fatto don Bosco a occuparsi delle sue case per i giovani che sorgevano in tutta Italia e all’estero?

Il mezzo di trasporto che ha più usato per girare tanto era il treno. Allora i treni non erano come i nostri, tranne per i ritardi come accadono anche oggi, purtroppo. I treni allora mancavano di servizi, avevano le panche di legno e poi il fumo delle ciminiere dava fastidio non poco ai passeggeri. Ha usato spesso anche la carrozza e una volta sola la nave. Don Bosco non faceva certamente viaggi di piacere o di vacanza. I suoi erano viaggi di lavoro, per risolvere problemi delle varie case Salesiane, per diffondere i suoi scritti, per visitare a volte anche un solo giovane che avesse bisogno del suo consiglio. Per lui che soffriva il chiuso, era qualcosa di atroce e faticoso viaggiare. L’amore per il prossimo lo spingeva a compiere enormi sacrifici.

Perché per don Bosco lo studio era fondamentale?

Don Bosco studiava sempre, sia per la sua vita, per prepararsi ad essere un buon prete, sia per aiutare i suoi ragazzi ad essere informati e non farsi sfruttare o corrompere dai più preparati. Proprio per aiutare al massimo i suoi ragazzi pensò di accostare allo studio i laboratori. Solo con entrambi il giovane poteva riscattarsi e correre felice e realizzato nella società. Diceva che un giovane senza preparazione è alla mercé degli altri, deve accontentarsi dello scarto. Un giovane che sprecava il suo tempo senza studiare e senza lavoro, don Bosco lo definiva senza timore un ladro, come per lui erano ladri quanti togliessero ai giovani la possibilità di studiare e di lavorare. L’esempio che don Bosco ci ha lasciato, è quello di incitare i nostri ragazzi a studiare e ad impegnarsi nella vita. Perché il mondo apre le sue porte a chi si impegna a cambiare la società.

Tu coltivi molto l’amicizia col prossimo. Anche questo è un insegnamento di don Bosco?

L’amicizia per don Bosco è sempre stata importantissima, ecco perché è noto anche come Amico dei giovani, non solo Padre e Maestro. L’amicizia più importante, e direi fondamentale per lui allora adolescente, fu quella con Luigi Comollo. Un ragazzino che era letteralmente il suo contrario. Dolce, buono e fragile. Giovannino invece era allora grezzo, vivace e con una forza mostruosa. Infatti era sempre pronto a difendere i più deboli e fragili e Luigi era proprio uno di questi. Un giorno, dei ragazzi più prepotenti stavano per mettere le mani addosso a Luigi. Giovannino vide la scena e corse subito in sua difesa. Luigi gli intimò: “Ma quella forza, Dio non te l’ha data per annientare i tuoi nemici!”. Fu una bella lezione. Luigi fu contento di avere come amico Giovanni, pronto sempre a difenderlo. Morì giovanissimo e fu sempre ricordato da don Bosco. Negli insegnamenti di don Bosco l’amicizia, quella vera e costruttiva, è stata elevata al rango di precetto, regola. Un vero amico non ti permette di continuare a sbagliare ma ti rialza sempre. Giustificare sempre un amico che sbaglia, significa non volergli bene ma al contrario, farlo restare indietro.

Che ruolo ha la preghiera per don Bosco?

Don Bosco nella sua vita ha pregato tanto e ha insegnato sempre a pregare. Pregare per lui era una ragione di vita. La preghiera l’ha sostenuto e l’ha guidato in ogni circostanza. La preghiera era sempre sulle sue labbra. Anche quando parlava, sia coi ragazzi che con gli adulti, era come se pregasse. “Pregare”, disse il Santo, “è elevare i nostri cuori in alto al Signore. Dio è Padre e come tale ci ama e ci ascolta”. Di don Bosco, durante il processo di canonizzazione, il famoso “avvocato del diavolo”, colui che deve trovare ogni piccolo tarlo nella sua condotta che potesse essere di impedimento, disse: “Ma con tutte le cose che faceva, quando trovava don Bosco il tempo per pregare”. Un cardinale presente, che aveva conosciuto bene il futuro santo, rispose: “Quando, non pregava?”. Tutto ciò che faceva, era preghiera. Il suo lavoro, era preghiera. Già San Francesco di Sales diceva che il lavoro poteva essere preghiera ma fu don Renato Zigiotti, uno dei  successori di don Bosco alla guida dei Salesiani, ad ottenere dal Romano Pontefice il “lavoro santificato”: la possibilità di farsi Santi con il lavoro.

La sua opera di evangelizzazione dei giovani fu ostacolata?

Sì. Don Bosco ha incontrato tanti ostacoli. Causati non solo da alcune autorità ma soprattutto dai suoi colleghi sacerdoti. Spesso lo fermavano per strada, rimproverando il suo interessarsi dei giovani: “Tu comprometti il nostro servizio sacerdotale, non interessarti di quei monelli. Occupati delle cose di Chiesa”. Veniva considerato pazzo, fanatico, visionario. La sua Fede però era più forte di tutto! Una volta vennero dei carabinieri a fare delle perquisizioni e trovando una scatola, ordinarono al sacerdote di aprirla. Ma don Bosco si oppose. I carabinieri insistettero e fu costretto ad aprirla. All’interno trovarono solo conti da pagare. Don Bosco, triste in volto, rispose loro: “Non avrei voluto farvi sapere i miei conti in rosso”. E non ebbe timore a chieder loro ad aiutarlo a pagare. Ma loro la presero come battuta, e salutando andarono via.

Come si è sviluppato l’Ordine dei Salesiani?

Don Bosco affidò la sua opera ai suoi successori, con umiltà e fiducia. Ormai anziano, disse all’amico sacerdote, don Barberis: “Voi compirete l’opera, che io ho incominciato; io ho creato l’abbozzo, voi stenderete i colori”. E davanti alla paura di don Barberis di rovinare la sua opera, proseguì: “Ecco: adesso io faccio la brutta copia della Congregazione e lascerò a coloro che mi vengono dopo di fare poi la bella”. Quando don Bosco morì, il 31 gennaio 1888, i Salesiani erano 773. Oggi nel mondo sono oltre i 15.000, presenti in tutti i cinque Continenti. La mano di don Bosco è arrivata veramente molto lontano. Eppure la Congregazione Salesiana ha poco oltre il secolo di vita. È una delle più attive e feconde, nonostante abbia avuto fin dagli inizi varie difficoltà, contrastata da vari Vescovi e Cardinali. Dovette intervenire il Papa in persona, per approvare le sue Costituzioni. Più si conosce don Bosco e più si comprendono la Congregazione e la Famiglia Salesiana e tutte le opere. Perché tutto è intrecciato con la sua vita. Don Bosco, alla fine, non ha inventato nulla. L’idea di oratorio era venuta già a San Filippo Neri e a San Carlo Borromeo. Alla Stampa, ci aveva già pensato Gutenberg. Ma don Bosco ha avuto il merito di prendere dei modelli e  riempirli di contenuti, arricchirli, espanderli, unirli assieme e mescolarli con la sua vita e le esperienze che aveva fatto.

Perché don Bosco è uno dei pochi Santi amati e riconosciuti anche da chi non è credente?

Perché a lui interessa soprattutto la persona. E questo è un concetto universale, interconfessionale. Ha visto prima di tutto le urgenze: la mancanza di una famiglia, una casa, un lavoro, gli amici, gli affetti. Ha insegnato la solidarietà, che è il valore umano più alto.

Nonostante l’importanza della sua figura, don Bosco non ha, in vita, mai vinto alcun premio.

Una volta sola. Fu per la sua stampante. Partecipò a una Fiera internazionale. Assieme ad alcuni dei suoi ragazzi, dimostrava come venisse fuori un libro. Ma poi, niente premi per ciò che faceva. Il suo premio è stato il successo della sua missione. Alla fine della vita, si riceve la ricompensa. Del resto, è alla fine della vita, che sappiamo com’è vissuta una persona. Si può migliorare o peggiorare, fino all’ultimo respiro. E Padre Pio disse, profeticamente: “Farò più rumore da morto che da vivo”. Di Nostro Signore si dice: “È un po’ ritardatario ma è un buon pagatore”. Dio, che vede tutto, saprà dare a tutti il giusto premio che non si corroderà mai. Perché eterno.

Qual è stato il più grande messaggio di don Bosco?

Salvare i giovani. Investire su di loro, aiutarli. Don Bosco aveva dentro il cuore qualcosa che l’agitava. Non erano i suoi ragazzi più discoli, né i debiti che l’assillavano. Era un’ansia molto più profonda. L’ansia apostolica. Quella di voler salvare i giovani. La sua politica, come diceva lui stesso, è quella del Padrenostro: prendersi cura del corpo e dell’anima. Chiedeva per questo la collaborazione di tutti. Tanti vennero ad aiutarlo. Ma tanti giravano la testa dall’altra parte. Tanti gli promettevano mari e monti ma, sul più bello, scomparivano. Come accade oggi. Amici, non voltate la testa dall’altra parte se qualcuno ha bisogno di voi! Dio ci dice; “Qualunque cosa avete/non avete fatto ai vostri fratelli più piccoli (in difficoltà), l’avrete fatto a me”. Il male più grande che affigge il mondo attualmente per me è l’indifferenza. Potremmo aiutare chi è più indietro nella società, invece, sono sempre di più quelli scartati, come cose inutili.

Cosa direbbe oggi don Bosco ai ragazzi e ai giovani?

È una delle domande che più mi hanno rivolto. Credo che direbbe: “Fuggite la noia e la pigrizia. Abituatevi a darvi da fare, a tenervi sempre occupati, portate avanti un hobby, che sia la musica, la pittura, qualche lavoretto di falegnameria, scrivere o leggere. Solo così avrete sempre qualcosa da fare, e non vi metterete mai nei guai. Invece se vi fate vincere dalla noia e dalla pigrizia, spesso sarete visitati dal sonno e vi accorgerete di non aver realizzato niente. Come si vive da giovani, così si vivrà da vecchi”.

Tu che sei uno scrittore, vivi di parole. Con quale parola ti piacerebbe concludere questa intervista?

C’è una parolina magica, che ormai pochi conoscono. La si usa così poco, che quando qualcuno la usa, la stoppiamo subito, dicendo: “non c’è di che!” Questa parolina è “GRAZIE”. Si, perché per tanti, piccoli e grandi, tutto è dovuto, ciò che fai, è perché gli spetta, mica è un dono, oppure un servizio. Non si usa dire grazie né a casa, né fuori. Soprattutto prima di dormire, fa sempre bene rivedere la nostra coscienza, e dire mentalmente “grazie” a chi dobbiamo. La notte, sapete, a volte, viene all’improvviso. Non facciamoci cogliere dal sonno senza aver ringraziato chi lo merita.

Carlo Alfaro

 

Carlo Alfaro

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